I PRIMI RETTORI DEL CONVITTO (E LA DISAVVENTURA DI UNO DI LORO)

I PRIMI RETTORI DEL CONVITTO (E LA DISAVVENTURA DI UNO DI LORO)

La maggior parte dei frequentatori di questo sito è probabilmente legata al ricordo di tre rettori del nostro convitto; andando a ritroso: Michele Milella, Luigi Spadaro e Giuseppe Tei. Per il Femminile si è sempre parlato di “direttrice”. Non sappiamo quali ex convittrici frequentino il sito in incognito, oltre alle assidue nella partecipazione ai forum Mariangela e Cecilia, il ricordo delle quali è legato a Lionetta Leonetti Luparini, preceduta, da Elena Carbonara, negli anni Cinquanta, e dalla primissima direttrice Anna Papini. Nessuna sembra ricordare il breve periodo in cui fu direttrice Aurelia Calabresi, poco prima della chiusura del convitto di Piazza Carducci, quando nel 1984 le convittrici superstiti vennero accolte in quello di piazza Campello, realizzando così il Convitto Unificato, tuttora attivo.

L’attuale direttrice di quello che ora si chiama, semplicemente, Convitto INPS, è la dottoressa Roberta Cuccagna, insediatasi circa a metà anno 2019 e il cui incarico, finalmente, sembra essere definitivo. Infatti, dopo il pensionamento di Michele Milella e il decennio di direzione di Paolo Simoneschi, il convitto ha visto avvicendarsi numerosi direttori e direttrici: dirigenti INPDAP e poi INPS, il cui incarico è stato troppo spesso limitato a brevi periodi. “Reggenti”, più che direttori, perché titolari di altri uffici amministrativi delle sedi di Perugia e di Roma, per cui non continuativamente presenti e Spoleto, essi sono stati coadiuvati nel loro operato dagli impiegati e dai funzionari ancora presenti in convitto fino a qualche tempo fa e che, spesso, hanno svolto un ruolo di responsabilità di particolare rilievo, se non altro nei diretti confronti dei giovani ospiti del convitto. Dopo Simoneschi si sono susseguiti, quasi vertiginosamente, Gino Franceschelli, ex direttore della sede INPDAP di Perugia, all’epoca prossimo alla pensione; Alessandro Ciglieri, che ha dato una spinta di “modernizzazione” acquistando strumenti musicali, atttrezzature di svago e intrattenimento più al passo con i tempi; Paola Severini, Anna Pisani, Loriana Bigozzi, Pierpaolo Sarnari, Massimo Muraca, che ha fortemente voluto l’intitolazione a Mario Leone di una sala del convitto, Vera Cardaioli, e Luigina Gagliardi.

Chi furono, però, i primissimi rettori del Convitto Maschile? Nemmeno l’accurato studio di Bruno Rossi, Convitti a Spoleto nell’800 e nel 900, è stato in grado di rispondere a questa domanda. Un tentativo lo aveva fatto la nostra Cecilia in un post del 14 febbraio 2014. Ora siamo finalmente in grado di dare un nome ai primissimi due rettori, con alcune notizie, che li riguardano, il tutto ricavato dai documenti dell’archivio storico del convitto (foto 1/4).

Questo è il testo di una comunicazione della presidenza dell’INOIS al “Sig. Cav. Prof. Bocchini Rettore”, datata 8 marzo 1897 (f. 1):

“In continuazione alla lettera 4 corrente N. 1591-100 notifico alla S. V. Illma che nella giornata di mercoledì 10 corrente Ella sarà sostituita con un nuovo Rettore. Con stima, Il Presidente M. Pellegrini”.

Dunque, presumibilmente, il Prof. Bocchini è stato il primo rettore del convitto, in carica dal 1893. Perché quattro anni dopo venne destituito dall’incarico?

Qualche traccia è desumibile da un’altra lettera dello stesso anno, indirizzata al nuovo rettore e datata 19 aprile (f. 2):

“A sua 300-52 del 15 corr., prima di disporre riguardo alle medesime la S. V. Vorrà informare questa Centrale sui seguenti fatti:

1° L’ammissione all’ospedale del Giusti fu fatta con richiesta formale dal Sig. Cav. Bocchini nella sua qualità di allora Rettore del nostro convitto o per semplice di lui intromissione.

2° quali sono le discipline che regolano l’ammissione degli ammalati nell’Ospedale di Spoleto.

3° quali rapporti amministrativi esistono fra l’ospedale di Spoleto e il Comune

4° quale in ogni caso sia la retta stabilita, e quale dettaglio vi sia di spesa non essendo possibile la indicazione a forfait come viene fatto nella lettera.

Le notizie sul riguardo dovranno essere assunte dalla S. V. E riferite a questa Centrale con ogni riservatezza. Per Il Presidente, Porchetto.”

Giusti è probabilmente il convittore veneto Tullio, del quale non abbiamo altre notizie, ma che in questo modo possiamo annoverare fra i convittori ospiti in quegli anni Novanta dell’800. Per il resto, sembrerebbe trattarsi di una vicenda di raccomandazioni e di cattiva gestione finanziaria; ancora, però, non sappiamo né il nome di battesimo di Bocchini né l’identità del nuovo rettore, che ci viene svelata dalla lettera successiva, del 23 luglio, indirizzata all'”Illustrissimo Sig. Prof. Pasquale Montefoschi, Rettore del Convitto Orfani Inois Spoleto”  (f. 3):

“Mi compiaccio parteciparle che il Consiglio d’Amministrazione, nella sua riunione del 21 corrente, su proposta della Presidenza, ha approvato la conferma di V. S. A Rettore del Convitto di questo Istituto in Spoleto per l’anno finanziario che comincia con il 1° Ottobre 1897.

Nel contempo, avute presenti le condizioni economiche dello Istituto, ha creduto di aumentare, dalla suddetta data il di Lei stipendio annuo da £ 1380 a £ 1500.

Con sensi di viva stima, per Il Presidente, Porchetto.”

E’ dunque Pasquale Montefoschi il rettore subentrato a Bocchini, il quale morirà qualche anno dopo: lo stesso Montefoschi disporrà la partecipazione dell'”intero collegio con bandiera e corona” alle esequie del 16 dicembre 1903. Dalla comunicazione funebre dei fratelli, apprendiamo finalmente il nome di Bocchini: Francesco  (f. 4).

A Montefoschi succederà, ma non sappiamo quando, Filippo Schiavetti. Assunto come istitutore il 2 ottobre 1896 e nominato censore, una sorta di capo degli istitutori, il 22 ottobre 1897, Schiavetti ricoprirà l’incarico di rettore fino alla sua morte, nel 1928. Gli subentrerà il generale Antonio Rubino, che sembra decadere dall’incarico nel 1942, con l’istituzione dell’ENPAS (Legge 19 gennaio 1942, n. 22); la soppressione definitiva dell’INOIS con la devoluzione dei suoi compiti all’ENPAS avverrà nel 1947 (Dls. 25 gennaio 1947, n. 294. Sta di fatto che i documenti dell’archivio del convitto relativi al periodo del secondo conflitto mondiale sono ormai firmati da Giuseppe Tei, isitutore dal 1917, censore dal 1923 e rettore fino al 1966.

 

Pasquale Montefoschi, prima del trasferimento a Spoleto, era stato rettore del convitto-collegio di Tivoli: in questa veste fu vittima di un episodio di brigantaggio, così narrato dalle cronache dell’epoca (da umbriasud.com)

 

BANDITI ALL’ASSALTO DELLA DILIGENZA NARNI-AMELIA

7 luglio 1885

Erano in quattro i passeggeri sulla diligenza da Narni per Amelia ed erano ormai le sette di sera. La diligenza, andava al passo ed aveva appena cominciato a percorrere la salita di San Pellegrino, quando – riferiscono le cronache – tre individui sbucarono all’improvviso da una stradicciola. Due di essi imbracciavano il fucile il terzo era disarmato “Fermi o facciamo fuoco” gridarono i due armati. “Il dubbio non poteva esistere – racconta ill cronista dell’epoca – la vettura non poteva neppure essere messa al galoppo perché la salita di San Pellegrino è ripida”.

Il vetturino, Alessandro Scarnicchia, fermò il cavallo. Sotto la minaccia dei fucili spianati furono fatti scendere i quattro passeggeri, ossia “Il cav. Pasquale Montefoschi, direttore del collegio-convitto di Tivoli, un ingegnere di Perugia, un orefice e un calzolaio di Amelia. Il Cav. Montefoschi tornava dall’aver accompagnato a Terni uno degli alunni del convitto, il quale doveva dare gli esami di licenza in quel ginnasio”.

Quando tutti furono scesi – si legge – i grassatori vollero che i viaggiatori si stendessero lunghi in terra, con la testa davanti alle ruote della carrozza”. Dopodiché il bandito disarmato “ripulì ben bene le tasche a tutti portandosi via orologi, catene, anelli, portamonete”, poi i banditi “se ne andarono per i fatti loro”. Bottino 1.700 lire. L’autorità indaga.

 

CONDANNATI A MORTE I BRIGANTI ASSALITORI DELLA DILIGENZA.

Erano tre evasi. C’era anche Fortunato Ansuini, brigante di Norcia noto per la sua ferocia. La sentenza non fu eseguita: Ansuini riuscì di nuovo a scappare

Li presero quei tre banditi che armati di fucile assaltarono la diligenza Narni-Amelia. Erano tre briganti, uno dei quali, Fortunato Ansuini, famoso per la sua ferocia. Il 3 gennaio 1887 essi comparvero davanti al Consiglio di Assise di Spoleto. Erano tre brutti ceffi, malviventi pericolosi che furono condannati a morte. Perché mica solo dell’assalto alla diligenza e della “grassazione” ai passeggeri per un bottino di quasi duemila lire dovevano rispondere. S’erano macchiati, in pochi mesi, di una serie di delitti, qualcuno dei quali ben più grave.

I tre “malandrini che siedevano sul banco dei giudicabili” erano tre ex detenuti che s’erano incontrati e conosciuti nel bagno penale di Capraia, “dove formarono la loro associazione e meditarono gli infami delitti che usciti in libertà effettuarono”. Erano Francesco Di Mattia, originario della Sabina; Fortunato Ansuini da Norcia e Giovanni Luconi da Jesi. Tre briganti. Erano imputati per l’assalto alla diligenza Narni-Amelia e della rapina ai danni dei passeggeri e del postiglione; ma anche di una serie di furti di arredi sacri commessi “mediante scalata” nelle chiese di Norcia e dintorni procurandosi un bottino piuttosto consistente; di “grassazione a mano armata per essersi introdotti in un convento di Cappuccini in Sabina, legando uno a uno i frati come tanti capretti e saccheggiando completamente il convento”; del “brutale assassinio di un povero vecchio che uccisero con un colpo di fucile mentre transitava per la via di Norcia”. Un delitto – riferivano le cronache del tempo – “commesso per puro istinto di malvagità, perché l’ucciso era un poveretto che non possedeva un soldo ed andava per il suo cammino senza molestare per niente i tre malviventi”. In particolare si sottolineava la crudeltà del nursino Ansuini che era “il campione dei tre malfattori”.

I tre briganti, in una sala della Assise di Spoleto affollata di curiosi, ammisero le loro responsabilità e “nel confessare le loro infamie i malandrini scherzavano e chiamavano amici i carabinieri e i cappuccini che, dopo aver legati, derubarono”.

Il pubblico ministero Guannuzzi Savelli, chiese dopo il verdetto di colpevolezza dei giurati, la pena di morte. Richiesta che fu accettata dalla Corte d’Assise. “Il presidente – commentò il cronista – pronunciò la sentenza con voce fievolissima e commossa. I delinquenti invece, aprirono la bocca ad un sorriso sdegnoso”. Sprezzanti e gradassi fino all’ultimo.

Chissà, forse perché erano fiduciosi che sul patibolo non ci sarebbero mai saliti. D’altra parte si trattava di gente pratica anche di evasioni. Dopo essersi conosciuti nel penitenziario di Capraia, i tre in libertà c’erano tornati mica per aver scontato la pena, ma grazie ad un’evasione dal carcere di Roma, dove erano stati trasferiti.

Fortunato Ansuini era un noto brigante, famoso oltre che per la sua ferocia, anche per il fatto che provava soddisfazione a sfidare i carabinieri non perdendo mai l’occasione di metterli in ridicolo. Originario di Norcia (nacque in una famiglia di contadini nel 1844) dopo l’evasione, avvenuta nel maggio 1886 dopo una fuga rocambolesca attraverso la rete fogniaria, si rifugiò in Maremma e lì con i suoi compari cominciò una serie di scorribande. La banda fu chiamata in causa anche per la strage dei frati dello Speco di Narni-Sant’Urbano (ma i briganti si dichiararono innocenti per questo fatto) oltreché per una serie di altre “imprese”. Fu solo grazie ad una spiata se i malviventi furono rintracciati ed arrestati.

I carabinieri li sorpresero nel bel mezzo di un banchetto che stavano tenendo in una grotta. Si arresero subito consci del fatto che dopo un eventuale processo di condanna c’era sempre la possibilità di evadere.

Dopo la pronuncia della sentenza di condanna a morte delle assise di Spoleto furono divisi ed incarcerati in attesa dell’esecuzione che non arrivò in tempo, almeno per Ansuini il quale, rinchiuso nel Forte Filippo di Porto Ercole, nell’aprile del 1890 riuscì ancora una volta a scappare, insieme ad altri reclusi. Dopo aver rotto le catene che li legavano ai tavolacci, essi ruppero l’inferriata della finestra da cui si calarono utilizzando la corda ottenuta tagliando le coperte. La notte seguente a far conoscenza coi banditi fu un gruppo di pastori aggrediti nella loro capanna. Furono legati e derubati del denaro, dei fucili e di tutti i generi alimentari.

Fu una delle ultime azioni di Fortunato Ansuini. Il brigantaggio era ormai alla fine. La banda ebbe uno scontro a fuoco coi carabinieri, ma Ansuini riuscì a fuggire. Da quel giorno di lui non si è più saputo niente per circa vent’anni. Fino a quando, un ex agente di custodia non riferì di sospettare che vivesse da “barbone” a Genova.

 

STRAGE DI FRATI ALLO SPECO DI SANT’URBANO

 

Una domenica torrida, afosa, tipica del periodo del solleone, l’11 agosto 1890. Allo Speco di Sant’Urbano, in mezzo al bosco, sui monti che dividono la valle ternana dalla Sabina, però, si stava freschi. Mezzogiorno: i frati erano a tavola. Erano solo tre, quel giorno: Fra’ Alfonso, Fra’ Natale da Todi, Fra’ Emilio. Gli altri tre, Fra’ Leone da Terni, Fra’ Pacifico da Vignanello e Fra’ Paolino, erano andati nei paesi vicini. I primi due a Schifanoia, per la festa della parrocchia; il terzo a Sant’Urbano, poco lontano dal convento: si sarebbe trattenuto a cena coi fedeli. Sei frati in utto. In quell’antico, piccolo convento nato come eremo benedettino nell’anno Mille e diventato, poi, santuario francescano. Perché lì, più volte, San Francesco s’era recato per raccogliersi nella preghiera. Si riparava nelle grotte, larghe fenditure che s’aprono nel costone di roccia a strapiombo proprio sul convento. In un’occasione, malato, dovette fermarsi per parecchi giorni. Proprio dal bastone cui, debilitato, si appoggiava e che conficcò nel terreno al momento in cui, guarito, se ne andò germogliò un albero di castagno. La tradizione recita che quello stesso castagno, sette secoli dopo, divenuto maestoso, allungava la sua ombra sul convento.

La frescura. Il silenzio. La pace. E i tre frati che mangiavano, senza parlare. Una specie di incantesimo che andò in frantumi all’improvviso. Qualcuno bussò. Fra’ Natale, senza dir niente, s’alzò con un fruscio della veste, andò ad aprire. Un lampo d’inferno, sibito dopo. Il frate stava tirando a sé il battente quando fu colpito. Un fendente di violenza inaudita menato con un grosso bastone. Colpito in testa nemmeno un fiato fece in tempo ad emettere, non un lamento. Altri colpi, selvaggiamente, lo finirono. Fra’ Emilio e Fra’ Alfonso, accorsi, furono assassinati nella stessa, identica maniera, ancor prima che potessero rendersi conto. Con loro fu assasinato un ragazzo di 14 anni di Sant’Urbano, Agapito Salvati, il “garzone” del convento. Lo trovarono, i carabinieri. La testa fracassata. Era ini una delle grotte che avevano a suo tempo ospitato San Francesco. Forse, il ragazzo, aveva cercato di nascondersi,ma lo stanarono e l’uccisero per non lasciare testimoni.
Una strage. Compiuta a scopo di furto, dissero gli inquirenti, dopo le prime indagini. Le cellette dei frati erano state messe a soqquadro, fatta eccezione per una, quella di Fra’ Emilio. Forse i ladri e assassini non avevano avuto il tempo di completare l’opera alla ricerca di cose di valore. Ma cosa s’aspettavano di trovare in un piccolo eremo francescano?
Andò di lusso alla lavandaia del convento, che salita allo speco dal vicino paese di Vasciano, dove abitava, mezz’ora dopo mezzogiorno andò a bussare alla porta, richiusa dai banditi. Forse lei fu la causa del “lavoro” non finito. Non ottenendo risposta la lavandaia pensò che i frati stessero riposando e così fece dietrofront.
Le indagini non portarono ad alcuna conclusione. Chi aveva compiuto quella strage selvaggia? C’era qualcuni che avesse un conto aperrto coi frati? E per quale motivo? A chi potevano aver fatto saltare la mosca al naso quelle persone dedite più che altro alla meditazione?
Una pastorella, riferì ai carabinieri di aver incontrato, quella domenica mattina, poco dopo l’alba, nella macchia, quattro persone che le intimarono, minacciandola di morte, di andarsene alla svelta e di tenere la bocca chiusa. La ragazziona non seppe descrivere quegli uomini. Il terrore ebbe buon gioco. Qualcuno pensò alla banda del brigante Ansuini, che in quel periodo, dopo essere evaso dal carcere di Roma, era tornato ad operare nel Viterbese ed in Maremma. La pista fu presto abbandonata. Ansuini, umbro di Norcia, poteva conoscere la zona, ma da bandito esperto qual era non poteva illudersi di trovare chissà quali valori in quel convento. E poi, lui, era uno sfrontato e di solito firmava le sue azioni delittuose lasciando un biglietto di scherno ai carabinieri. Era fatto così… E allo Speco di Sant’Urbano di biglietti indirizzati all’Arma non ce n’erano.

 

DOPO VENT’ANNI RICOMPARE IL BRIGANTE ANSUINI

Un mistero: di Fortunato Ansuini brigante di Norcia si erano perse le tracce da tempo. Che fine aveva fatto colui che per una decina di anni, verso la fine del 1800, aveva terrorizzato tutto il centro Italia con le sue “gesta”? Rapine, omicidi, assalti alle diligenze, furti sacrileghi, che gli fruttarono vari arresti e persino una condanna a morte poi tramutata in galera a vita. Era un palmares da far invidia in certi ambienti. Anche perché, agli arresti, seguirono sempre evasioni, a volte rocambolesche.
L’ultima di queste evasioni risaliva al 1889, quando Ansuini scappò dal reclusorio dell’isola di Capraia e riprese le proprie scorrerie soprattutto nella campagna a cavallo tra l’Umbria e il Lazio, tra il Narnese ed il Viterbese. Al suo fianco aveva il fido luogotenente Menichetti. Si scontrarono in conflitto a fuoco coi carabinieri, nel giugno 1891. Menichetti ferito ad una coscia e s’accasciò. Fu quindi arrestato. Ma Ansuini, la cui rapidità di movimenti era proverbiale, riuscì a sfuggire alla cattura e sparì nel nulla.
Da quel giorno di lui non si ebbero più notizie. Qualcuno disse che, pur di non subire un altro arresto,s’era annegato nel lago di Bolsena; alri che s’era chiuso in convento dopo essersi fatto frate; qualche altro che era emigrato in America.

Invece eccolo ricomparire nel periodo di Natale del 1913 a Voghera. I carabinieri della città lombarda fermarono per vagabondaggio un anziano. “Mi chiamo Domenico Proietti – disse – ho settant’anni e sono di Acquapendente in provincia di Viterbo”. Non aveva documenti, e all’accertamento compiuto i carabinieri si sentirono rispondere dell’ufficio anagrafe del centro del Viterbese che quel nome nei registri non compariva. La statura, un metro e settanta, l’età, gli occhi sempre in movimento, il naso sottile ed adunco, le orecchie esageratamente attaccate alla testa… Un agente di custodia del carcere di Orbetello lo individuò quasi con certezza. Macché Domenico Proietti di Acquapendente, quello era Fortunato Ansuini da Norcia. Il brigante famigerato che aveva seminato il terrore in tutta la fascia centrale della penisola; lo stesso che era evaso due volte da Regina Coeli, e poi dal penitenziario di Orbetello e dal carcere di Capraia. Colui che il Tribunale di Spoleto aveva condannato a morte insieme ad altri tre brutti ceffi per essersi tutti macchiati in poco tempo della , dell’assalto ad un convento di cappuccini in Sabina coi frati legati come capretti prima di razziare tutto quel che trovarono; del repulisti compiuto in diverse chiede del nuesino; dell’omicidio a sangue freddo di un anziano che passava per la via principale di Norcia, assassinato per una scommessa tra i malviventi.

[Roberto Quirino]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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