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LA STATUA DI S. ANTONIO E UNA MISTICA GIURISDAVIDICA

Quest’articolo e i materiali che lo corredano necessitano di una premessa: chiunque dovesse riscontrarvi contenuti in qualche modo offensivi o che turbino una sua dimensione privata, non dovrà far altro che chiederne al nostro amministratore la cancellazione, che sarà senz’altro immediata.

f. 01Molti fra gli ex convittori, specialmente fra coloro la cui età anagrafica ha ormai varcato abbondantemente la soglia del mezzo secolo, ricorderanno “Marcellino pane e vino”, del 1955, un film strano e inquietante, dalla religiosità onirica e visionaria. Un trovatello viene adottato da una comunità di frati francescani; col passare degli anni Marcellino, questo è il suo nome, sente la mancanza della figura materna e inizia a fare ai frati molte domande sulle mamme. Un giorno, il piccolo trova nella soffitta del convento un crocifisso, cui inizia a portare da mangiare e da bere e che anzi gli rivolge la parola, chiamandolo Marcellino Pane e Vino, dato che questi sono gli unici alimenti che il bambino è in grado di procurargli. Marcellino, dopo qualche tempo, gli chiede di poter vedere la sua mamma e la Madonna. A questo dialogo assiste non veduto Frate Tommaso, che chiama i confratelli, che così sono testimoni del miracolo del Cristo che scende dalla croce e vi risale dopo aver fatto dolcemente morire il piccolo Marcellino.

E’ del tutto improbabile che un film del genere possa attualmente incontrare i gusti del pubblico, di quello infantile specialmente, cui all’epoca era pur destinato. Ricordo di averlo visto a cinque/sei anni in un cinema parrocchiale di Milano, rimanendo turbato dalla morte di Marcellino e agghiacciato dall’ombra di Gesù che scende dalla croce. Per chi fosse curioso di vederlo o rivederlo, se ne possono trovare stralci su You Tube; più divertente è senz’altro Totò e Marcellino, una specie di sequel, dove, se non altro, la presenza del principe De Curtis scioglie in leggerezza l’assunto ancora una volta lagrimevole e pietistico.

Tutto ciò per introdurre un argomento che non so quanto possa essere a cuore dei nostri affezionati lettori, ma che ha più di un motivo di interesse.

Ricordate la statua di Sant’Antonio che arredava la cappella del convitto maschile, nei pressi dell’altare? Ci si inginocchiava ai suoi piedi per snocciolare i Pater Ave e Gloria impartiti per penitenza dai frati cappuccini che venivano a confessarci, il sabato pomeriggio. La presenza di questo S. Antonio era perturbante come il Gesù di Marcellino: nella luce dorata filtrata dai vetri piombati e colorati delle finestre della cappella, a fissarlo devotamente, come prescritto dalla religiosità dell’epoca, sembrava che si muovesse, offrendoci delicatamente tenuto nella mano sinistra. Credo che un po’ tutti noi bambini percepissimo una sensazione stranita e turbata al cospetto di questa statua di scagliola colorata.

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La cappella è ormai dismessa da molto tempo, da oltre venti anni. Le panche vennero adattate a sedute per altri ambienti del convitto; smantellato l’altare, non so che fine abbia fatto la pietra-reliquiario di consacrazione al suo centro;f. 3 il Crocifisso della sagrestia e il Sant’Antonio vennero donati ad un ex convittore, frate francescano nel f. 4convento di Città di Castello, senza però che se ne fosse conservata una memoria fotografica. Solo di recente il nostro buon frate, nel frattempo trasferitosi in Sardegna, me ne ha fornita qualche immagine, relativa però al restauro che la statua ha subito recentemente, a causa di una rottura accidentale durante il trasporto da Città di Castello(ff. 1/3), e che haf. 5  cambiato parzialmente i connotati al volto del santo e del Bambino. Nel frattempo, scartabellando nei vecchi faldoni della posta della Direzione del Convitto, mi sono imbattuto in tre documenti del febbraio e del marzo 1949, corredati da un’immagine della statua (ff. 4/7). f. 6 

Il 26 febbraio i Carmelitani Scalzi della Parrocchia di S. Teresa, in Corso d’Italia a Roma, informano la direzione del prossimo invio di una statua di S. Antonio, “offerta al convitto di Spoleto da parte di una signora incognita”. L’11 marzo il rettore Giuseppe Tei assicura il Parroco della parrocchia carmelitana di aver ricevuto la statua, pregandolo di voler ringraziare l’”incognita signora”. Il 12 marzo informa anche la direzione generale E.N.P.A.S. del dono ricevuto.

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Chi era questa “incognita signora”?

Il caso ha voluto che qualche tempo io sia andato all’Amiata, ad Arcidosso, che ricordavo sede di un’importante comunità di buddhismo tibetano, ma non ricordando che fosse anche il luogo in cui nacque il giurisdavidismo. Infatti, visitando il paese, mi imbattei in lapidi e ricordi di David Lazzaretti (1834-1878), fondatore di questa confessione, detto il Cristo dell’Amiata (ff. 8, 9).f. 8f. 9 Fu così che, tornato a casa, volli sapere qualcosa in più su di lui e sul giurisdavidismo. Di certo deve essere stato un personaggio ben strano, questo predicatore visionario e travolgente che sognava una forma di “socialismo mistico” che contemperasse il socialismo con l’utopismo biblico ed evangelico. Traggo queste notizie da Wikipedia:

“Dal suo eremo sull’isola di Montecristo, dove si ritirava più volte, un giorno ritornò ad Arcidosso con una bandiera rossa sulla quale era scritto La Repubblica è il Regno di Dio. Il suo visionarismo socialista si assumeva quindi il compito di guidare l’umanità verso l’era dello Spirito Santo, improntata alla legge di Diritto dopo che si erano concluse l’era del Padre, caratterizzata dalla legge di Giustizia da quando Mosè aveva ricevuto i comandamenti, e l’era del Figlio, ovvero Gesù e l’era della legge di Grazia.

La sua comunità, chiamata Giurisdavidica, ossia del diritto di Davide, sembrò assumere i caratteri di un socialismo mistico e utopistico: egli prese le difese della Comune di Parigi e raccolse consensi anche da figure che, nella Chiesa, avevano posizioni sociali favorevoli ai ceti più deboli e diseredati, come San Giovanni Bosco, che lo ospitò e lo sostenne…L’attività di Lazzaretti e della sua comunità mise in allarme sia la Chiesa cattolica che lo Stato italiano: nel marzo 1878 la Chiesa cattolica, per mano del Sant’Uffizio, lo condannò come eretico, lo scomunicò e mise all’Indice i suoi scritti; ma egli proseguì la sua attività e si proclamò “Cristo Duce e Giudice”, affermando di essere venuto a completare la rivelazione cristiana….

La mattina del 18 agosto 1878, pochi mesi dopo la morte di Pio IX e l’ascesa al papato di Leone XIII, egli guidò una processione che dal Monte Labbro, ribattezzato monte Labaro, scese verso Arcidosso. Ad attenderli vi era però una pattuglia di carabinieri e un militare sulla cui presenza si nutrono tuttora perplessità mai chiarite. Fu proprio questo militare, un certo Pellegrini, che colpì a morte David. Altri spari furono diretti sulla processione inerme, facendo tre morti e circa quaranta feriti.

Morente, fu trasportato prima in località Croce di Cansacchi, fuori dal paese, dove i suoi seguaci lo fecero visitare da un medico, dovuto venire da Santa Fiora, poiché i medici di Arcidosso non vollero visitarlo; fu poi trasportato alle Bagnore, un villaggio nei pressi di Santa Fiora, dove morì.

Il suo cadavere fu sepolto a Santa Fiora in terra sconsacrata, ma venne poco dopo prelevato dall’antropologo Cesare Lombroso, il fondatore dell’antropologia criminale, che aveva ottenuto le sue spoglie per i propri studi, volti a ricercare nel Lazzaretti l’origine organica di una follia criminale. Ciò che rimane di quel corteo variopinto (bandiere, labari, gonfaloni, vesti, tuniche) che Lazzaretti predispose per un ingresso in Arcidosso, fu, unitamente ad altri reperti, conservato per circa un secolo nel lascito che Cesare Lombroso aveva destinato al Museo di antropologia criminale di Torino, e trasferito, successivamente, almeno in parte, nel Centro studi David Lazzaretti di Arcidosso.

Il 24 ottobre del 1879 si tenne a Siena il processo contro ventitré seguaci di Lazzaretti arrestati dopo l’eccidio e imputati di «attentato contro la sicurezza interna dello Stato, per aver commessi atti esecutivi diretti a rovesciare il Governo ed a mutarne la forma, nonché a muovere la guerra civile ed a portare la devastazione ed il saccheggio in un Comune dello Stato», ma furono tutti assolti.

Dopo la morte di Lazzaretti, i suoi adepti si dispersero in gran parte, ma alcuni continuarono a perpetuare la predicazione e l’utopia socialista e religiosa del fondatore. Ne restano alcune decine nella zona del Monte Amiata e in Maremma, dove sussistono ancora i resti di alcune costruzioni della primitiva comunità giurisdavidica tra le frazioni delle Macchie, dove aveva fatto costruire due scuole, e della Zancona, dove è conservato l’archivio dei seguaci. L’ultimo sacerdote giurisdavidico, Turpino Chiappini, è deceduto nel 2002”. Incuriosito, approfondii la ricerca on line, nei siti http://www.centrostudilazzaretti.it, e http://www.cesnur.com/movimenti-profetici-e-messianici-di-origine-cristiana/il-movimento-giurisdavidico-di-david-lazzaretti, dove lessi il nome della sacerdotessa Elvira Giro (1910-1989), che mi fece scattare qualcosa nel cervello, fra le mille informazioni sedimentate grazie a letture e a curiosità di vario genere. Comunque, navigando in quest’ultimo sito, mi imbattei negli scritti teosofici di Elvira Giro, fra cui l’autobiografia “Storia della mia vita nella grande opera della Regina dell’Universo”. Non si può immaginare la mia sorpresa quando vi lessi citati Spoleto e il suo convitto, dove, nel 1946, Elvira mise il figlio Francesco (o Franco) Pintus. Ecco dove avevo letto il nome di Elvira Pintus! nella scheda d’ingresso di Francesco, quando riordinai l’archivio, introducendovi i fascicoli personali dei convittori e delle convittrici, ognuno dei quali riordinai a sua volta disponendovi all’interno i vari documenti in ordine cronologico!

Così scrive la Giro nella “Storia della mia vita”:

“Per continuare la scuola di Franco lo misi nel collegio di S. Giuseppe assieme al suo amico Bruno Ferrari, che si erano ritrovati dopo tanta assenza. In un giorno che andai al negozio di Rosetta e che erano già ritornate le altre mie sorelle dal paese, ci trovai una cliente che mi suggerì: “Perché non approfitta dell’istituto ENPAS per suo figlio di cui lei ha diritto, come vedova di un impiegato statale? In questi istituti lei non paga niente e li fanno studiare fino alle scuole superiori”. Accolsi il consiglio di questa cliente ed attraverso il Ministero delle Corporazioni mi furono poi date le modalità per farlo entrare al Convitto di Spoleto, che si trovava in un antico convento.

Andai prima a visitarlo e trovai che era bene organizzato, e che vi erano una trentina di ragazzi, solo maschi. Presi gli accordi con il rettore, per l’iscrizione di Franco, che era ben disposto ad andarci. Anche per me andava bene perché era una cittadina vicino a Roma e dove potevo andare spesso a trovarlo. In questo istituto tutto andava bene. Franco cresceva in armonia coi suoi amici più vicini a lui. Nello studio era sempre promosso. Io ero sempre serena oltre a occuparmi delle faccende di casa, mi recavo anche al negozio per controllare il suo andamento (p. 24) … A rompere il mio vivere gioioso ci fu un fatto spiacevole. Il rettore del Convitto Enpas di Spoleto, una mattina mi telefonò per dirmi che mio figlio facendo la ginnastica era caduto dalla pertica, che si era spezzata, ed era a letto in attesa del risultato del medico. Alla notizia sono partita per Spoleto e trovai Franco bloccato a letto ma, con la caduta, non si erano rotte le ossa. Quando poi si è alzato io sono ritornata a Roma.

A Spoleto avevo fatto amicizia con una signora di nome Venia Misciano sposata Sprega, ed era una medium alleata con un’altra di nome Milvia Luciani e tra di loro facevano degli studi spirituali. Passarono ancora dei giorni e poi ritornai a Spoleto a visitare mio figlio. In quel Convito non c’era la chiesa bene organizzata, per la fede religiosa dei ragazzi. Così che d’accordo con il rettore comperai a Roma la statua di Sant’Antonio, di grandezza naturale e gliela feci mandare al Convitto che sull’Altare faceva un grande effetto sui giovani collegiali e con tutta la riconoscenza del rettore” (p. 25).

L’”incognita signora” donatrice della statua di S. Antonio fu, dunque, Elvira Giro, sacerdotessa giurisdavidica e madre del convittore Francesco Pintus, uscito dal convitto nel 1952: nell’autobiografia c’è una foto bellissima e tenerissima di madre e figlio (f. 10).f. 10

A lei si deve questa preghiera (ff. 11, 12),f. 11f. 12 che ho ritrovato nel faldone della corrispondenza della direzione del 1946, l’anno di entrata di Francesco Pintus in convitto, e che sembra essere una sorta di bozza di “preghiera del convittore”, cui venne preferita quella che molti di noi hanno imparato, Onnipotente Signore.., reperibile in questo nostro sito.

Sembrerebbe finita qui, e invece c’è dell’altro.

Nel 1987 l’anzianissimo ex convittore Gregorio Mondelli regalò al convitto una parte della sua biblioteca, comprendente anche parecchie annate rilegate della rivista “L’Europeo”. Pochi mesi fa, sfogliandone un volume che raccoglie le uscite del 1960, ho trovato un articolo di Renzo Trionfera, così intitolato: Un timbro per il paradiso. f. 13f. 14f. 15Siamo andati ad assistere al ferragosto dei giurisdavidici. Non so quanto siano leggibili: impossibili da scansionare, ne ho fotografato le pagine, corredate da immagini che ci propongono una cerimonia da cui spira intatto tutto il dramma lazzarettiano, sullo sfondo di un mondo agrario scomparso, abitato da rudi uomini dalla faccia segnata dalla fatica, dalle barbe profetiche, che trascinano il simulacro di Davide Lazzaretti e recano lo stendardo col motto “La Repubblica è il Regno di Dio”: ad officiare la cerimonia, a somministrare la comunione è proprio la nostra signora Elvira Giro (f. 13, 14, 15).

   [Roberto Quirino]

Una risposta

  1. Il nuovo parroco della chiesa di S. Filippo, don Bruno, dove è stata celebrata la Messa dell’ultimo Raduno, durante la quale è stata recitata la preghiera “Onnipotente Signore…”, vorrebbe conoscere le origini di questa. Qualcuno ne sa qualcosa? Veniva recitata anche al Femminile?

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